Vai al contenuto

Omaggio a Lorenzo Calogero: “Un bisbiglio lungo il cammino”

Un grande del ‘900

Ogni volta che torno a leggere Lorenzo Calogero mi convinco sempre di più non solo come la sua poesia sia importante nel nostro novecento, ma soprattutto come la sua voce sia unica, e, da opaca o fievole che poteva sembrare, si faccia sempre più chiara e forte, e aperta alla nostra comprensione.
Scrisse Amelia Rosselli di Lorenzo Calogero: «una specie di neoermetismo del tutto inaspettatamente d’avanguardia». Potrebbe sembrare una battuta un po’ semplicistica, e invece a mio avviso dietro questa definizione di Amelia c’è qualcosa di molto vero. Premesso che sia avanguardia che ermetismo (anzi neo-ermetismo come precisa giustamente Amelia) nella sintesi calogeriana diventano qualcosa di assolutamente irriconoscibile e nuovo rispetto ai punti di partenza, dobbiamo dire che avanguardia e ermetismo non sono che i due poli, estremi e simbolici, di una sintesi che comprende e rielabora moltissimi altri elementi: la filosofia presocratica specialmente italica, e in particolare Empedocle, la filosofia medievale anche qui prevalentemente calabra, cioè Campanella, Gioacchino da Fiore e Telesio, con elementi mistico-fisici, la filosofia novecentesca e in particolare Heidegger, e la poesia cui Heidegger s’è abbeverato (Hölderlin, Rilke), la poesia d’amore italiana di tradizione stilnovistica, forse in cima a tutte le influenze, e poi la psicanalisi novecentesca, la linguistica, la nuova fisica e soprattutto la nuova astrofisica.

Alcuni critici hanno parlato di stilemi ermetici, ma per quanto riguarda la lingua poetica, anche qui, il mélange di Calogero produce qualcosa di totalmente nuovo. Non c’è niente di preso che non sia rifuso in un tutto unico, in una materia nuova.
Sicuramente la sua è una concezione mistica della poesia, in un senso molto moderno, che è collegato alle teorie scientifiche, fisiche ma anche psicanalitiche e linguistiche novecentesche, e al pensiero moderno in genere. E a quella parte, grande parte per la verità, del pensiero moderno che ha ripercorso e ripensato l’antica filosofia presocratica.
Egli vede un’unità originaria edenica, sfero empedocleo il cui big-bang ha generato il mondo. Il mondo è un universo di frammenti che si allontanano, che, per quanto «arsi», soffrenti «arsura», portano l’impronta dell’unità, ne sono «specchiati visi», come il viso lunare, la faccia riarsa e arida che porta i segni, come ferite, della felicità e della vita, dell’acqua e dell’amore. L’uomo ha bisogno dell’unità perduta, di Dio, come dell’aria, dell’ac­qua. Come egli trova la strada dell’acqua materiale, così trova, con la poesia, la strada dell’acqua spirituale, risalendone il percorso fino alla sorgente. 

Gli esseri molteplici, frammenti del perduto, hanno una forza segnica, che è potenzialità salvifica, “possibilità”. I segni dal canto loro in Calogero non sono astrazioni o arbitrarietà (qui la grande differenza – anzi il capovolgimento – rispetto all’avanguardia), ma hanno un corpo, seppur ferito e monco, arido o morente, o morto. Cioè i segni sono esseri viventi, o meglio erano viventi, sono quanto resta, di ciò che fu vivo. E in quanto vivo non era segno, era pura gioia, puro silenzio che non indicava niente. Per quanto «acre», i segni hanno una vita, che il poeta conosce («Gelide parvenze, la vita acre dei segni/ conosco»). Ma la conoscenza è sempre labile e incerta in Calogero, egli non ricorda, sono i segni che ricordano, o gli ricordano. Il morire è prima di noi, non dopo, il sogno è qualcosa che è stato (Sogno più non ricordo recita il titolo di una raccolta). La poesia è il cammino della memoria, la catena di segni che, di parola in parola, ci riporta all’origine. Tutto ciò che è, rivà naturalmente all’ori­gine: è un bisogno irrinunciabile e irriflesso come il respiro, come l’acqua taletiana dell’essere. Come l’acqua è scesa e si è allontanata, con la stessa precisione ritorna.

Claudio Damiani

 

Pagine: 1 2 3 4 5